SEMPRE RED RHINO
La notte del 25 gennaio ci ha lasciato Alberto Signetto, un regista che ci ha accompagnato in tante occasioni con i suoi film e con la sua presenza, mai banale.
A lasciarci è soprattutto un amico.
Di Red Rhino però ci rimarranno per sempre le immagini dei suoi lavori video.
Ne ricordiamo solo alcuni: Sympathy for the Rolling (1982), Weltgenie (1988), Conversazioni con Robert Kramer (1998), Architetture olivettiane a Ivrea (1999), Nella pancia del piroscafo (2006).
Qui la biografia attualmente presente su L’Enciclopedia del Cinema in Piemonte:
Qui di seguito invece, l’intervista che Emanuele Tealdi, critico e studioso di cinema, fece a Signetto in occasione dell’omaggio che Piemonte Movie gli tributò nell’edizione 2010 del gLocal Film Festival.
La pubblichiamo affinché non resti prigioniera di un catalogo ormai introvabile, ma possa essere letta da tutti.
Tutto lo staff di Piemonte Movie si stringe intorno ai familiari di Alberto e a chi gli ha voluto bene e rivolge un ultimo saluto al grande rinoceronte rosso.
Ciao Alberto!
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SYMPATHY FOR ALBERTO
Intervista ad Alberto Signetto
di Emanuele Tealdi
In occasione di questo omaggio, tributatogli da Piemonte Movie, ho incontrato Alberto Signetto alcune volte, per decidere i termini del lavoro che avremmo fatto su di lui e con lui. Uomo disponibilissimo, decisamente simpatico ed ironico, è comunque sempre impegnato tra set, viaggi nella natìa in Argentina, ecc. Un giorno, ai primi di febbraio, ha comunque trovato il tempo per dedicarmi l’intero pomeriggio, è venuto nella nostra sede di via Montebello e ne è nata una piacevole conversazione sul cinema e non solo. Alberto quando prendeva la parola diventava un fiume in piena, si è discusso di teorie del cinema così come si sono rievocati aneddoti di ogni tipo. Quanto segue è una significativa parte (che comunque rende bene l’idea della poetica di Alberto Signetto), ma non la lunghissima intervista, che per motivi di spazio, non abbiamo potuto inserire integralmente.
Iniziamo da Fish Eye. Un film molto importante per vari aspetti. Tu quando ne parli ti soffermi sulla “mediazione invadente della televisione”. Questa è una cosa assolutamente e politicamente attuale. Come si può quindi “conciliare” oggi il lavoro di un documentarista che da un lato non può cedere a questa “mediazione”, ma dall’altro non trova canali che non siano i festival per incontrarsi col pubblico e per distribuire il proprio documentario? Questa domanda si collega ad un’altra molto più semplice ma allo stesso tempo molto tragica: come fa a vivere un documentarista oggi?
Devo fare una premessa: quando parlavo dell’invadenza della televisione mi riferivo al fatto che la televisione uniformava i formati. Cioè le cose sono fatte in maniera molto diversa, soprattutto nel cinema: c’è chi sceglie il Cinemascope, ecc, La televisione invece uniforma tutto tagliando di sopra o di lato all’inquadratura. All’epoca – meno che mai ora- non c’era una sensibilità su queste cose. Detto questo per la mia generazione la televisione è stata insostituibile, io l’ho spesso definita “il più grande cineclub di massa”, ci siamo formati grazie alla televisione, soprattutto per quanto riguarda il cinema classico. Mi ricordo che quando frequentavo le elementari vedere il film era un appuntamento importante. C’era un periodo dell’anno in cui si davano i film al mattino, cinema classico americano, italiano, gangster movie. Li si guardava senza nessuna capacità di discernimento, tipico dei ragazzini. Quando crescendo cominciò poi la parte più personale e motivata a guardare il cinema, la televisione continua ad essere insostituibile, certe cose le vedevi solo lì. Adesso certo c’è la rete e (legalmente o no) trovi più o meno tutto. Adesso il grande cambiamento è che quello che vedi lo puoi possedere, ti puoi scaricare il film, trovi tranquillamente tutte le avanguardie storiche che all’epoca non vedevi mai, se non in qualche museo o quando capitava una rassegna. Quindi la mia generazione ha avuto con la televisione, e in parte anche con il cinema, un rapporto di natura enciclopedica, nel senso che noi abbiamo grazie a lei accumulato tutto il possibile. Dico anche il cinema perché ricordo, qui a Torino, il cinema Bernini in piazza Bernini appunto, dove noi andavamo tutte le sere a vedere qualunque cosa: per esempio, tre volte all’anno davano Il mucchio selvaggio e noi tre volte all’anno andavamo a vederlo; oppure davano tutto il cinema underground americano e la sala era sempre piena. Si andava sempre al primo spettacolo perché dopo si andava a fare bisboccia!
Terminata la premessa e tornando alla questione posta (il problema della conciliazione del documentario con la televisione) il documentario ha differenti funzioni o immaginari. Per molto tempo il documentario è stato vissuto come un qualcosa di impossibile e insostenibile: documentari paludati con la voce fuori campo che letteralmente spiegava le immagini che vedevi . Lo si definisce documentario classico, ma a ben vedere, nel periodo classico, negli anni ’40 o ’50 c’erano degli ottimi documentari. La gente collega la parola documentario a qualcosa di scientifico o naturalistico, geografico, turistico, storico archelogico, ecc. In realtà anche nel documentario poi si sviluppa una Politique des auteurs, cioè c’è gente che fa documentario senza far finta di non esserci. Col mio primo lavoro sui Rolling Stones, la prima cosa che avevo escluso fin dall’inizio era la voce fuor campo, perché la voce fuori campo aveva una tradizione di imperialismo culturale pazzesco, era legata ai cinegiornali Luce o, in un modo ancora più sgradevole della prosopopea del Luce, alle voci sarcastiche delle Settimana Incom che coi loro commenti ironizzavano per esempio sui capelloni o sulle minigonne. Insomma la voce fuori campo risulta la voce della verità assolutà: in teoria è una voce soggettiva che appartiene a chi la dice, ma in realtà, nella fruizione di massa, la voce fuori campo diventa la voce oggettiva. Inoltre ci sono altri problemi derivanti da chi pronuncia questa voce fuoricampo: se non la legge uno speaker ma l’autore stesso la voce viene riconosciuta (nel caso di un autore noto) o lo costringe a mostrarsi anche se parla solo fuori campo e questo inserisce nel documentario un elemento molto forte e dinamico che è la presenza dell’autore, è una presenza con cui devi fare i conti. E siamo sempre lì: ritorni alla soggettività. Quel che ci tengo a dire è che i documentari che di solito si vedono (ora di meno per fortuna) sono in realtà realizzati per la radio perché, pur essendo costruiti bene con una concatenazione logica molto precisa, se tu chiudi gli occhi li segui lo stesso, perché quello che conta per questi documentari è il testo. Ma visto che i documentari non si realizzano per la radio bisognerebbe partire dalla definizione base della regia che è la messa in scena di un testo. È di questo che si deve occupare un regista. Il testo compete ai testimoni, come dice la parola stessa. Se un regista si occupa troppo di un testo è perché tende a modificarlo e così facendo si mette in discussione la funzione del documentario. Mi spiego: se io devo intervistare una persona, quello che dice questa persona compete a lui e non a me, io non devo avere una tesi preconcetta. Nei documentari poi si vede se l’autore ha una tesi preconcetta: filmi in modo che, più o meno consciamente, questa tua tesi venga confermata. Ho fatto alcune lezioni alla Scuola Holden sul documentario, una di queste era dedicata alla messa in scena del testo in un intervista. Cioè ci si deve preoccupare di come fare l’intervista non di quello si dice. Quello che si dice nell’intervista, avendo scelto il “testimone”, fa parte di un disegno complessivo.
Inoltre io sono contrario a chi (come fanno molte case di produzione, soprattutto nel Nord Europa) ti chiede una scaletta del documentario. Un documentario non dovrebbe avere una scaletta dettagliata: è giusto che a volte accada di trovare qualcosa che contraddice e scombussola i piani prestabiliti, se non ci si stupisce nel realizzare un documentario allora tanto vale realizzarlo. Per esempio quando sono andato in Argentina per girare Nella Pancia del piroscafo mi ero documentato molto eppure ad un certo punto mi sono fermato, ho dovuto fermarmi, perché mi sono reso conto che stavo creando una cosa a tavolino, quindi ho fatto una full immersion in Argentina e ho scoperto molte cose nuove, che prima non sapevo o erano state interpretate male.
Prima quando discutevi sull’utilizzo della voce fuori campo e della soggettività dell’ autore mi è venuto in mente uno dei massimi documentaristi: Frederick Wiseman. Il quale non vuole esprimere altra tesi se non quella di far vedere la realtà.
Certo. Tu costruisci l’argomentazione del documentario confrontando le voci che hai raccolto. Non è un caso che Wiseman giri molto materiale. Chi fa questo mestiere, per esempio, sa che se vuoi fare una domanda che ti interessa molto non gliela devi porre subito, devi dare modo all’intervistato di abituarsi alla macchina da presa, al set, ecc…
Se non sbaglio addirittura certi documentaristi come Wiseman dedicano anche molto tempo a stare nei luoghi in cui poi gireranno (un carcere, un ospedale, un commissariato) col solo scopo di saper poi piazzare la macchina da presa e cosa riprendere poi quando sarà ora.
Ecco questa è una cosa molto importante perché si spiega la differenza tra reportage e documentario. Il reportage è un lavoro dove una troupe televisiva, con dei tempi stretti di pubblicazione, va in un posto, si guarda in torno cerca di riprendere tutto quello che può, compresi i testimoni, e poi con poco materiale e con poco tempo costruisce il reportage. Il documentario invece prevede uno studio e soprattutto i sopralluoghi. Sopralluoghi per saper cogliere gli elementi più significativi e poi anche “sopralluoghi umani” per scegliere e verificare i testimoni e per sapere incrociare le testimonianze. I tempi del documentario sono molto più dilatati perché prevedono la ricerca. In Argentina ho dato il primo “colpo di manovella” un mese dopo il mio arrivo. Il documentario è una scoperta non è una spiegazione.
Ora che abbiamo preso questa direzione teorica e di scoperta, ti cito un documentario di Harun Farocki Respite (episodio di Memories progetto realizzato con Pedro Costa ed Eugène Green), in cui Farocki recupera del materiale girato addirittura dai nazisti, in un campo di trasferimento olandese e lo analizza confrontando varie fonti che letteralmente “nascono” in queste pellicole. Non c’è voce fuori campo ma ci sono i cartelli e grazie a questi cartelli Farocki riesce a ricostruire storie veramente struggenti. Io penso che questo sia uno dei lavori più significativi sull’utilizzo di materiale preesistente (non girato da lui) che comunque svela e scopre una realtà, come dicevi tu prima. Anche tu hai lavorato molto, con altri obiettivi, con materiale preesistente o di repertorio. Penso a Earth Men Lake, in cui citi le immagini di Godard.
Sono operazioni stupende che, qualcuno le fa su se stesso, altri le fanno con materiale altrui, ho visto recentemente ottimi lavori di Kluge di questo tipo. Sono operazioni che comunque hanno un padre nobile: il buon Jean-Luc! Il problema è sempre il linguaggio e la sperimentazione. In letteratura per esempio amo Gadda non a caso, ma perché è uno sperimentatore. Nel cinema Godard è il massimo sperimentatore. Ti cito una sua frase: à propos du cinéma militant le problème ce n’est pas questionner le travailleur, mais le problème c’est travailler la question! Il cinema è questo : i travailleurs dicono quello che vogliono, ma è la question il tuo mestiere. Inoltre c’è il discorso sul soggetto: se io devo fare un intervista mi chiedo qual è il soggetto? Il signore che devo intervistare, ma non solo. Nel documentario spesso quello che si deve vedere è quello che deve stare fuori campo: la contestualizzazione o l’astrazione. Per esempio la tecnica alla History Channel con le interviste a storici o geografi, che parlano col fondo nero o simili, mi trovano sempre perplesso: mi chiedo se focalizzare tutta l’attenzione sul loro pensiero è una scelta produttiva o estetica? A questo proposito, una mia scelta registica ed estetica molto forte, ad esempio, è stata quella di utilizzare, molto prima che si affermasse in televisione il 16:9, un finto 16:9. Cioè un 4:3 ma con le barre sopra e sotto. Questa scelta derivava dal fatto che il classico 4:3 era esaurito dal primo piano, mentre il finto 16:9 mi permetteva di inserire altri soggetti o di contestualizzare e quindi di dare più profondità all’immagine. Questo è il grande insegnamento di un documentarista come Orson Welles. In Cogliere un paese, girato a Caluso, c’è un altro grande riferimento a Welles e non solo: il piano sequenza di dieci minuti. L’obiettivo era quello di parlare della fabbrica del paese e della Resistenza, ecco quello cha abbiamo fatto: si parte davanti alla fabbrica inquadrando un ex dirigente, questo signore comincia a parlare e noi (su di un’auto) lo filmiamo. Poi ci allontaniamo ma continuiamo a sentire quello che dice fuori campo. Riprendiamo la fabbrica. Quando la fabbrica termina ci voltiamo e riprendiamo l’altra fabbrica che sta di fronte. Ad un certo punto, quando il dirigente comincia a parlare degli anni bui della fabbrica, degli anni 50, noi stiamo inquadrando (significativamente e quindi simbolicamente) un muro, poi ci giriamo in avanti, riprendiamo la strada che va verso la stazione. Mentre il dirigente continua a parlare arriva il treno con un fischio irruente che cancella quello che dice il dirigente. Passato il treno e arrivati in prossimità della stazione sentiamo un’altra voce che inizia a parlare dell’episodio della Resistenza avvenuto a Caluso, vicino alla stazione, dove furono giustiziati due giovani partigiani e il piano sequenza termina inquadrando la lapide dei due ragazzi. È in questo senso che secondo me va il documentario di creazione. Questo è cinema, non c’è differenza col cinema di finzione, la tecnica è quella. Infatti io scrivo sempre un film di, non un documentario di, semplicemente perché non c’è differenza.
Parliamo della tua esperienza con Jean-Marie Straub e Daniele Huillet. Deve essere stato un grande onore e soprattutto una grande fortuna andare, probabilmente per la prima volta, su di un set e trovarsi proprio su un set così importante e fondamentale.
Nel film io dico solo una battuta, al bar di Santo Stefano Belbo. Loro mi hanno inviato questa brevissima battuta sei mesi – dico sei mesi – prima delle riprese. A Santo Stefano c’erano due bar ai tempi di Pavese. Nel 1978 uno era rimasto più o meno uguale a vent’anni prima, l’altro (quello frequentato da Pavese) era stato completamente modernizzato, ma Straub non ne ha voluto sapere ed ha girato in quello ristutturato ma frequentato da Pavese…
Il discorso sui materiali…
Esatto. Discorso ideologico e rigoroso. Ma io sono stato altri giorni sul set, il primo giorno Straub girava nelle vigne la scena in cui i due protagonisti passeggiano sulla costa. Straub (o forse Huillet) deve aver colto la mia eccitazione a stare sul set con loro e per questo mi ha mandato a cinquecento metri di distanza, a fermare le macchine. Per tutto quel giorno io non visto nulla del set, vedevo solo Straub che mi diceva quando fermare le macchine e quando lasciarle passare. Anche quella è stata una grande lezione.
Comunque, scusa la mia insistenza, non mi hai ancora risposto a proposito di come fa a vivere un documentarista oggi?
Non ti ho risposto perché semplicemente non lo so. Oggi poi è meglio non parlarne!
Tra tutti i maestri che hai citato (Straub, Godard, Angelopoulos, Ruiz) però mi sembra che quello a cui poi nella pratica ti avvicini di più, penso per la dimensione antropologica, sia Jean Rouch.
Ma io invece penso Kramer. Rouch ha un approccio inguaribilmente francese, ha un entusiasmo, una joie de vivre che io non penso di avere. Kramer invece ha un approccio ideologico da un alto, ma lucidamente pragmatico dall’altro. Infatti Kramer non voleva che nessuno facesse un film su lui. Quando ho girato Conversazioni con Robert Kramer ne abbiamo parlato molto e lui mi ha detto che il film lo avremmo fatto insieme e non sarebbe stato un film su Kramer bensì un film con Kramer. Questa è una cosa molto importante.
Ora cambiamo decisamente discorso, se non sbaglio tra i tuoi progetti non realizzati c’era anche la ricostruzione di un derby Juve-Toro del 1945 poco prima della Liberazione, dove dopo una rissa in campo si finì poi sugli spalti a pistolettate tra fascisti e partigiani?
No, non era un mio progetto quello. Io volevo comunque fare un altro film sul Toro, che poi non si è mai realizzato…
…buona parte dei film maker della tua generazione ha il cuore granata, purtroppo…
È stata una generazione dotata di estremo buongusto, direi!
A parte gli scherzi io volevo fare un film sul finale di Toro-Modena del 1962. Il fatto è questo: io avevo otto anni ed ero allo stadio Comunale con mio zio (è lui che mi ha iniziato alla fede), c’era la neve e a pochi minuti dalla fine, sull’ 1-1, su passaggio di Gerry Hitchens, lo spagnolo Joaquin Peirò segna il 2 a 1. Ma l’arbitro annulla per fuorigioco e lo stadio che stava esultando per il gol piomba in un silenzio totale. In questo silenzio un vecchietto urla all’arbitro: birichin d’in birichin d’in bastardas..!!! E lì poi succede di tutto. Mi è rimasto impressa questa partita e volevo fare un corto su questo delizioso vecchietto, un angelo che pure lui perde la pazienza davanti alla sfiga del Toro! Non se n’è fatto nulla e adesso come adesso è meglio lasciar perdere…
Se guardi la tua lunga carriera qual è il tuo film che ti ha realizzato o che comunque ti ha dato maggiore soddisfazione, sotto tutti i punti di vista?
Non posso dirne uno solo, sono almeno tre. Uno è sicuramente Weltgenie, che è il mio lavoro più famoso. Mi ha dato molta soddisfazione perché finalmente ho fatto quello che volevo fare, quello è il cinema che sento mio. Cinema di contenuto letterale, che si occupa di poesia. Il documentario mi piace molto ma una parte di me è vocata a questo tipo di lavoro come Weltgenie. Purtroppo doveva essere il primo di una trilogia (questo è realizzato in orizzontale, gli altri due dovevano avere uno sviluppo verticale e circolare), il film è andato benissimo in tutto il mondo ma la trilogia, già scritta e progettata, non si è mai compiuta per mancanza di fondi adeguati.
Il secondo è Fish Eye, realizzato con brani di altri film, non è mai potuto uscire perché non abbiamo mai potuto pagare i diritti. E questo è un problema che non si è mai affrontato e non si è mai regolamentato. Cioè se usi le immagini di Gandhi per realizzare una pubblicità è giusto pagare milioni di euro per i diritti, ma se tu fai lavori artistici o antologie per le scuole la cosa dovrebbe essere decisamente diversa. Scorsese ha fatto delle antologie bellissime sul cinema italiano e lo hanno massacrato, gli hanno imposto tagli, si sono fatti strapagare. Uno Stato e una Siae seria dovrebbero regolamentarsi in un altro modo. Se oggi si vuole fare un film con materiali di repertorio, per esempio sugli anni Settanta, devi mettere in conte migliaia di euro di diritti e questo vuol dire non poter fare i documentari indipendenti. Infatti per questo Fish Eye andò solo nei festival.
E infine Nella pancia del Piroscafo, perché quello è il primo film veramente molto personale, una ricerca di un nuovo campo di interessi lontano da qua, un ripensamento e una riflessione sulla nostra generazione che ha attraversato un’intensa attività politica ed è stata, per molti ma non per tutti, una generazione veramente di indipendenti. E tutto questo lo abbiamo pagato a caro prezzo: qualcuno si è più o meno sistemato, ma la maggior parte continua a remare, perché non si vuole adeguare, ma nella vita poi è molto dura.
Dovendo sciegliere il film che più ha influenzato la tua carriera hai scelto L’uomo che bruciava i cadaveri di Juraj Herz del 1969. Che mi hai detto essere il film che segna il punto di non ritorno: da lì hai deciso cosa avresti fatto da grande?
Eh si, anche se diciamo pure che c’erano anche altri film molto importanti in quel periodo: per esempio L’ora dei forni di Solanas oppure One Plus One. La mia età della ragione ha coinciso col ’68, ma la mia formazione culturale e politica non si è basata solo sulla lettura dei Libretti Rossi, anzi. Ricordo la lettura sconvolgente, fatta nel ’68, di On the Road di Kerouak o de L’urlo di Ginsberg (da cui ho tratto poi il titolo delle Conversazioni con Robert Kramer) e il mito della beat generation.
Infine un ultima domanda. Visto che hai parlato di Beat Generation ci puoi raccontare di quando, in occasione delle riprese di Sympathy for the Rolling hai incontrato Keith Richards.
Ognuno ha i suoi miti. L’idea del rock era un’idea sulfurea per noi. Col senno di poi viene fuori la grande maestrìa dei Beatles e già allora il primo album che ho comprato è stato Sgt Pepper nel 1967. Detto questo di pancia venivano fuori i Rolling Stones, quelli più brutti e sgraziati possibili, molto prima di One Plus One e c’erano canzoni come Honky tonk woman o You gotta move, molto dure, sporche, trasgressive. Per me Exile on Main Street è uno dei loro album migliori (anche se Mick Jagger non è d’accordo) e tutto questo era emblematizzato dall’anima nera del signor Keith Richards. Così quando nel 1982 potei entrare nel camerino, dove, Mick Jagger, uomo d’affari impegnato a distribuire autografi e sorrisi, mi si avvicina per stringermi la mano io praticamente lo sposto per dare la mano a Keith Richards, Sua Maestà Satana in persona!
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